mercoledì 4 settembre 2024

L'onda nera

 I fascisti sono più vivi che mai. Le elezioni in Sassonia e Turingia mettono in evidenza il fallimento della riunificazione tedesca. I land orientali sono rimasti poveri, condannati all'emarginazione sociale. I tedeschi dell'est si rivolgono ai neonazisti di AFD perché ormai sono disillusi, non si rifugiano nell'astensione ma vanno a votare perché pensano di poter ancora cambiare la situazione. L'affermazione di Sahra Wagenknecht è ancora più interessante, perché dimostra come stia facendo breccia un'interpretazione dell'emigrazione che ha degli epigoni anche in qualche economista italiano: l'immigrazione di massa produce una forte pressione verso il basso dei salari dei lavoratori autoctoni. Gli interessi dei lavoratori immigrati e quelli dei lavoratori tedeschi sono irrimediabilmente divergenti. 


La notizia di oggi che però mi sembra più importante è la rottura dell'intesa tra Volkswagen e sindacato. La più grande casa automobilistica d'Europa ha paventato la possibilità di chiudere alcuni stabilimenti, stante la crisi di competitività in atto. Perché questa mossa della Volkswagen? L'azienda sa bene che la chiusura di un solo sito produttivo determinerebbe un innalzamento del livello dello scontro sociale. Forse ha capito che i lavoratori sono così deboli in questo momento, che un inasprimento delle condizioni vedrebbe comunque l'azienda vincitrice. Tutta benzina sul fuoco dei rossobruni. Quali saranno gli effetti di una simile decisione sulle aziende dell'indotto come per esempio quelle italiane? Al momento è difficile rispondere. Più probabile un effetto di emulazione da parte di Stellantis che da mesi lamenta problemi di produttività anche in Italia. Si prospetta un autunno molto caldo.

giovedì 31 agosto 2023

Tassa sui rifiuti. Una proposta

Qualche tempo fa, leggendo un libro di Vincenzo Visco, "La guerra delle tasse", mi ha molto colpito una riflessione dell'autore, secondo cui il patto sociale è un patto fiscale e viceversa. Le persone convivono e accettano di pagare le tasse perché così tutti possono usufruire dei servizi che lo stato mette loro a disposizione. Partendo da qui, mi sono messo a pensare alle ragioni dell'abitare nei piccoli comuni e ne ho concluso che le tasse non sono un aspetto secondario di una dignitosa qualità della vita. È per questo che mi sento di fare una piccola proposta in tema di pagamento della tassa sui rifiuti. Mosso da questo proposito, sono andato a leggere il regolamento comunale TARI relativo al comune di Lungro, regolamento recentemente modificato.

 In tema di riduzioni delle utenze domestiche, l'agevolazione è del 30% per tipologia di soggetti: nucleo familiare composto da un'unica persona, abitazioni ad uso stagionale, soggetti che risiedano all'estero per almeno sei mesi all'anno (art.23 comma 1). Si potrebbe proporre, invece, di legare la riduzione sia per la quota variabile che per quella fissa alla situazione economica del contribuente. Stabilire delle riduzioni in base all'Isee. In tal modo, il pagamento della tassa risulterebbe molto più in sintonia con la condizione dei cittadini, garantendo il principio costituzionale secondo cui “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva” (art.53 Cost.). Legare le agevolazioni a degli scaglioni Isee garantirebbe una maggiore equità, avvicinando l'ente comunale alle esigenze dei cittadini.

 Naturalmente una simile innovazione determinerebbe una diminuzione di gettito che dovrebbe essere a carico del bilancio generale del Comune. Non so al momento che spazi di manovra ci potrebbero essere, anche perché confesso di non conoscere l'attuale bilancio dell'ente. Voglio però precisare che un sistema del genere è ampiamente in uso in tanti comuni. Senza andare lontano, si può guardare a Castrovillari.

 Abitare in un piccolo comune dovrebbe avere dei vantaggi che dovrebbero riguardare anche il pagamento delle tasse, tali da compensare i disagi che necessariamente in questi ultimi decenni hanno caratterizzato la situazione delle aree interne, con una pesante riduzione dei servizi.



venerdì 24 aprile 2020

Libera nos a malo

L’altro giorno, in Senato, il prof. Bagnai, commentando le comunicazioni del premier Conte, ha fatto un intervento degno di riflessione. Il senatore ha posto l’accento sulle limitazioni della libertà personale disposte dal governo che, comunque la si possa pensare, sono un fatto cruciale in una democrazia occidentale. Dettate dall’esigenza di contenere il diffondersi del virus, le restrizioni incidono su un caposaldo dello stato moderno, la sacralità della libertà del cittadino. Bagnai non è l’ultimo arrivato, con il suo libro “Fuori dall’Euro”, ci ha regalato pagine di grande intensità sulla natura del sistema monetario di cui facciamo parte. Vorrei solo citare la favola del centro e della periferia. Pertanto, non sarebbe corretto etichettarlo semplicemente come un senatore della Lega. La sua stessa valutazione sull’operato di Conte non è derubricabile a semplice polemica politica. Quest’ultimo ieri ha partecipato alla riunione dei capi di stato e di governo della UE e non ha perso tempo a fare poi la solita diretta Facebook per elencare i grandi risultati raggiunti. Ormai questi appuntamenti del nostro nobiluomo, che comunica direttamente con il popolo, hanno assunto i caratteri della farsa.

Prima di tutto l’Italia non ha ottenuto un bel niente, la bandiera di battaglia degli eurobond è stata definitivamente ammainata, il Recovery Fund diventerà operativo nel gennaio del 2021, se si raggiungerà l’intesa. La verità è che gli amici tedeschi ci tengono al guinzaglio, ma Conte fa credere che stiamo giocando una partita da pari a pari. Dall’affermazione altisonante “…altrimenti l’Italia farà da sola”, siamo passati a chiedere che una parte dei finanziamenti concessi al Paese siano a fondo perduto.

A questo punto, ci sovviene un pensiero che riconosco un po’ strapazzato: domani ricorre la festa della liberazione dal nazifascismo. Ebbene, una delle caratteristiche del Regime era proprio lo scollamento tra una retorica roboante e la dura realtà in cui gli italiani si trovavano a vivere soprattutto durante la guerra. La tragedia si ripete come farsa, direbbe il Moro.

Conte promette agli italiani finanziamenti a tassi aggevolati in banca, ma è di questi giorni la notizia che un istituto bancario ha rifiutato quattordicimila richieste fatte da piccoli imprenditori. Conte promette la cassa integrazione, ma nessun italiano ha ancora visto un centesimo. Intanto, nella realtà quotidiana, le mense della Caritas sono sempre più affollate. Oggi, un fruttivendolo di origine africana ha regalato cesti di frutta e verdura a padri e madri di famiglia italianissimi. Ci sono figli di italiani che non possono seguire le lezioni via internet, semplicemente perché non hanno una connessione ad internet e non hanno nemmeno un tablet. Stanno arrivando vagonate di soldi, anzi sono già in stazione, ma nel frattempo molta gente sta morendo di fame. Gli annunci mirabolanti del premier non sono le parole di un liberticida, ma somigliano molto a quelle del conte Mascetti: la supercazzola con scappellamento a destra…La farsa si ripete come tragedia. Buon 25 Aprile a tutti!

lunedì 14 ottobre 2019

La Storia non insegna niente.

La crisi siriana dimostra ancora una volta che l'Europa, come entità politica non esiste. La ridicola presa di posizione dei ministri degli esteri della UE non significa nulla. Vietare la vendita di armi alla Turchia è una vera presa in giro, perché i turchi hanno già le armi per perpetuare il loro massacro contro i curdi. Oggi, quello che fa più indignare è proprio l'atteggiamento dei governi europei, impauriti dalle minacce di Erdogan di riversare nel continente tre milioni e mezzo di profughi. Sono tutti terrorizzati dall'idea di perdere consenso all'interno dei propri paesi, dopo che per anni politici di quattro soldi hanno seminato odio e razzismo nei confronti degli immigrati. Che senso ha fare un governo senza la Lega se poi si condivide la sua visione di fondo? Un vero statista prende decisioni che possono risultare impopolari, ma le prende lo stesso perché ha il coraggio di farlo. Bisognava inviare un contingente militare al confine turco-siriano, nello spazio lasciato dagli Usa. Forse Erdogan non avrebbe osato bombardare con il pericolo di colpire le truppe di un paese alleato nella Nato. E intanto che Di Maio firma il suo decreto per vietare la vendita di armi alla Turchia, i curdi e i siriani muoiono. La verità è che del dramma curdo non importa a nessun governo. I curdi non rappresentano uno stato, non hanno petrolio come il Kuwait. Da venticinque anni a questa parte, hanno fatto solo una cosa: hanno difeso l’esistenza stessa della Civiltà contro il terrorismo. La situazioni odierna ricorda per certi aspetti la Conferenza di Monaco del 1938, quando Adolf Hitler smembrò la Cecoslovacchia per annettere la regione abitata dai sudeti. Il Führer lo fece di fronte ai pavidi ministri di Francia e Gran Bretagna, che non fecero nulla per impedirglielo, anzi accondiscesero nella speranza di placare la sete di dominio del Terzo Reich. Oggi l’Europa balbetta, si nasconde dietro vuote formule diplomatiche. Donald Trump scrive su Twitter dei comunicati che si contraddicono nel corpo stesso del testo in un evidente sintomo di schizofrenia politica. Tutto questo, mentre non troppo lontano da noi, un popolo sta combattendo e morendo con orgoglio e onore, quell’onore che il Mondo civile sembra aver perso.

venerdì 24 maggio 2019

Il Paese prima di tutto.

Le foto in bianco e nero presentano una forte suggestione, ma hanno anche un grave difetto. Non si capisce mai con certezza se ci sia il sole o il cielo sia plumbeo. Com’era il tempo il 9 maggio 1978 a Roma? Di quel giorno, molti di noi conservano un’immagine triste, grottesca. La posa innaturale del presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, con la testa reclinata da un lato, è un corpo da cui la vita se n’è andata. Prima c’erano state le lettere dal carcere brigatista, con la radicale e drammatica presa di distanza del professore rispetto al partito di cui era stato così a lungo dirigente. Il 7 giugno 1984, invece, faceva caldo. Padova era piena di comunisti, era la conclusione della campagna elettorale per le Europee. Enrico Berlinguer, stremato, cercava di concludere il suo comizio, mentre la folla gli gridava “basta!”. I comunisti avevano capito che il capo stava male. Il segretario del Pci morirà qualche giorno più tardi.
Dopo la morte di Moro, è successo un fatto di cui esiste un’esigua traccia, affidata alla memoria di un uomo ormai vecchio, Massimo Magliaro, che di mestiere faceva il capo ufficio stampa del MSI. Si tratta degli incontri riservati, quattro, forse sei, che Enrico Berlinguer e Giorgio Almirante ebbero tra il 1978 e il 1979. Di queste cose parla un bel libro, uscito di recente, scritto da Antonio Padellaro, “Il gesto di Almirante e Berlinguer”, per PaperFIRST. Sullo sfondo, e neanche troppo sullo sfondo, c’è il terrorismo, quello rosso e quello nero, e ci sono due uomini, due nemici. Da una parte c’è la lotta di liberazione e dall’altra c’è la Repubblica di Salò. Due persone più distanti non sarebbe stato possibile trovare. Eppure si incontrarono, si parlarono, probabilmente mutarono anche l’idea che l’uno aveva dell’altro. Forse impararono a stimarsi. Gli incontri avvenivano di venerdì pomeriggio, in una sala riservata di Montecitorio. Alla fine della settimana, infatti, la Camera era quasi deserta, i deputati ritornavano a casa e nei corridoi c’era poca gente. Ad accompagnare Almirante e Berlinguer vi erano soltanto due persone, Massimo Magliaro e Antonio Tatò. Non sappiamo l’argomento dei colloqui, perché A. e B., come li chiama Padellaro, ad un certo punto si appartavano e rimanevano soli. Forse si scambiavano notizie utili per fronteggiare l’ondata di violenza che da destra e da sinistra stava affogando l’Italia. Più che le parole, però, contano i gesti: l’incontro di due culture distanti, la volontà di porre gli interessi del Paese prima di ogni altra cosa. L’aspirazione comune che l’Italia meritasse di più.

Quando Enrico Berlinguer morì, la camera ardente venne allestita a Roma alle Botteghe Oscure. Tantissime persone si recarono a dare l’ultimo saluto a quello che, senza dubbio, rimane l’ultimo leader che il Pci abbia avuto. Tra le persone normali in fila, ad un certo punto ne comparve una che nessuno avrebbe mai immaginato potesse trovarsi lì. Un tipo calvo, con gli occhi azzurri. Tra lo stupore generale, Giorgio Almirante sostò davanti alla bara e si fece il segno della croce. L’erede di Salò rendeva l’ultimo omaggio al comunista, per niente amato dai comunisti sovietici. Sono passati trentacinque anni da allora, oggi i gesti hanno perso di importanza a favore della chiacchiera. L’unica costante rimane la corruzione dilagante, quel male contro cui una classe dirigente degna di questo nome aveva cercato di combattere. Quella battaglia, purtroppo, Berlinguer l’ha persa. Quel senso del bene comune, malgrado tutto e tutti, di cui Almirante e Berlinguer diedero testimonianza, è compromesso dal chiacchiericcio degli incapaci. Ciononostante sarebbe necessario mantenerne la memoria. E qui si inserisce la felice proposta di Padellaro, uno di sinistra, subito accolta da Pietrangelo Buttafuoco, uno di destra. Perché non intitolare una piazza a Giorgio Almirante ed Enrico Berlinguer? Sarebbe un fatto importante per ricordare a tutti, ed in special modo alle nuove generazioni (come si suol dire), che l’Italia ha avuto dei politici che, pur con visioni diverse, l’hanno amata più delle loro poltrone.

mercoledì 27 febbraio 2019

I quattro mori.

Sulle elezioni regionali sarde, in questi giorni, se ne sono sentite di tutti i colori. Sparate esilaranti ne abbiamo ascoltate da Di Maio:”Prima non eravamo nel Consiglio regionale, adesso ci siamo”. Battute ancora più colorite da esponendi del Pd:”Queste elezioni sono la prova che il bipolarismo non è morto, anzi!”. A sentire questa gente, hanno vinto tutti…Chi ha vinto e chi ha perso veramente? Ha perso il governo, questo è il dato lampante. I 5 stelle hanno subito un vero tracollo perdendo trecentomila voti in un anno. In televisione, i soliti esperti di flussi elettorali si sono addentrati in spericolate analisi per cui i voti dei grillini delusi sarebbero andati alla Lega e al Pd. I dati dicono altro, dicono che meno del venti per cento ha votato per il centrodestra e poco più del quindici ha votato per il centrosinistra. Il resto dov’è andato? Semplicemente non è andato a votare. Si è rifugiato di nuovo nell’astensionismo. Come dargli torto? In questi mesi chi aveva dato fiducia al Movimento 5 Stelle, ha dovuto assistere a continui cambi di linea, ripensamenti indecenti come sul Tap in Puglia e la promessa di aumento delle pensioni ai disabili con tanto di video su Instagram. Per non parlare del caso della nave Diciotti, dove si è assistito alla totale sconfessione di uno dei pilastri del Movimento per cui nessuno è al di sopra della legge, nemmeno un ministro. La pessima costruzione del Reddito di Cittadinanza in cui si confonde la lotta alla povertà con una misura attiva per il lavoro, ha fatto il resto. Gli stessi criteri per ottenerlo non fanno altro che escludere tante persone che si trovano effettivamente in una condizione di sofferenza. In secondo luogo, ha perso il centrosinistra che ha dovuto cedere la guida della regione. Il Pd, benchè sia risultato ancora primo partito, ha dimezzato la sua percentuale rispetto alle scorse regionali. Il centrosinistra esiste come artificio elettorale, un cartello senza un progetto politico nel migliore dei casi, nel peggiore un reticolo clientelare che cerca di sopravvivere alla temperie. La sinistra ormai sembra svanita dopo vent’anni di subalternità al neoliberismo. I diritti sociali e la questione meridionale sono scomparsi dall’agenda. Uno spazio veramente desolante quasi come un paesaggio urbano di Michelangelo Antonioni o un quadro di Edward Hopper. Ha vinto il centrodestra che non è solo la Lega come si vorrebbe far credere. Le elezioni sarde mostrano questo fatto in maniera inequivocabile. In Italia c’è un blocco sociale molto vasto, che in certi periodi della nostra storia diventa senz’altro maggioritario, che si richiama ai valori della destra, non solo e non tanto a quella sociale, ma quella fatta dalla paura del diverso, dal bisogno di sicurezza. La destra non è solo quella dei piccoli e medi imprenditori del nord, ma anche quella di chi è stato falcidiato dalla crisi di questi anni ed è stato abbandonato dalla sinistra. Chi abita nelle periferie di questo nostro paese si sente ed è dimenticato dalla politica, è povero e ha paura dei nigeriani che spacciano l’eroina sotto casa sua. Si tratta di un raggruppamento largo che non è solo la Lega di Salvini, si tratta di un diffuso e comune sentire. In questo quadro, la Lega non brilla nel risultato elettorale perché sconta l’impossibilità di mantenere le promesse. Benche Salvini abbia cercato di mostrarsi vicino ai pastori sardi, la sua operazione elettorale non ha portato grandissimi frutti. Se non hai un bagaglio culturale di un certo tipo non puoi capire veramente i problemi del Meridione, tale è la Sardegna. Se qualcosa di significativo emerge da queste elezioni sarde è la distanza tra un ceto politico impreparato e la realtà. Quando erano in corso le trattative per il governo nazionale, fonti giornalistiche riferiscono che Di Maio e Salvini convocarono il prof.Giulio Sapelli per sondare la sua disponibilità a ricoprire la carica di presidente del Consiglio. Emblematica la domanda che Di Maio gli avrebbe fatto:”qual è la sua visione dell’economia?”. Sarebbe bastato leggere la sua celebre Storia dell’economia italiana dal dopoguerra ad oggi, per sapere la visione di Sapelli, un cultore della terza via di Tony Blair. Il problema che oggi affligge il Paese è l’esistenza di una classe di governanti che non studia, non legge e si fa quasi vanto della sua poca preparazione. In una fase come quella che stiamo vivendo, noi italiani avremmo avuto bisogno di una classe politica strutturata sul piano culturale con gli strumenti giusti per leggere la società. Qualche settimana fa, Paolo Savona si è dimesso da ministro, non certo perché muoia dalla voglia di fare il presidente della Consob. Nella primavera scorsa, il professore sardo ha pubblicato la sua autobiografia Come un incubo e come un sogno, nella quale ricostrusce, tra le altre cose, il periodo del boom economico. Savona dimostra come siano stati fondamentali due elementi che hanno determinato quel cosiddetto miracolo: l’edilizia e le esportazioni. Quando era ancora ministro di questo governo, il professore aveva presentato un piano da cinquanta miliardi di investimenti pubblici. Questo piano è stato completamente ignorato. Il ministero delle Infrastrutture è retto da una persona, Danilo Toninelli, che non si capisce se sia un caso lampante di incapacità politica, o, più semplicemente, un caso clinico.

sabato 19 gennaio 2019

È tutta una grande Storia... Il 17 gennaio dell’A.D. 2019, passerà alla Storia (un termine molto amato dai 5Stelle) per la nascita del nuovo Welfare State. Il ministro dai denti più bianchi del mondo e più abbronzato del mondo ha dichiarato con tanto di slide che ormai è fatta, ci siamo: è sorto un nuovo Stato sociale. L’ossatura della nuova creatura è il Reddito di Cittadinanza. A un milione e settecentomila famiglie verrà data una card e sarà questa il mezzo per tirare via dalla palude della povertà i disperati italiani insieme a qualche centinaio di migliaia di stranieri residenti in Italia da più di dieci anni. È un fatto storico, è un momento storico, è proprio una cosa storica! Peccato che qualche giorno fa, il ministro Di Maio abbia pubblicato su Instagram una foto con l’elenco di tutte le cose fatte e tra queste ci fosse anche l’aumento delle pensioni ai disabili. Fatto anch’esso che attiene alla Storia: nel decreto appena licenziato non v’è traccia dei disabili. Il ministro per il quale “nessuno deve rimanere indietro”, si è dimenticato proprio di quelli che, di solito, sono sempre indietro. Il nostro, nello show a Palazzo Chigi, non ha mancato di sottolineare che le pensioni di cittadinanza riguarderanno anche duecentocinquantamila nuclei con disabili. Che a veder bene non c’entra niente con l’affermazione per cui abbiamo aumentato le pensioni ai disabili. Sarà una manovra espansiva, signore e signori, la povertà verrà abolita, perciò tutti sul balcone a festeggiare, mentre una signora in prima fila, vicino al palcoscenico, ride tanto che il rimmel si impasta con le lacrime. Silenzio in sala, per favore, c’è il presidente Conte:” Chi parla prima Matteo o Luigi?”. Parla Luigi per dire una verità che è già storia: chi non spenderà i soldi sulla card entro il mese, perderà questi soldi, perché questa è una misura economica. Non è che si regalano soldi senza un fine, bisogna “iniettarli” nel mercato. Peccato che l’iniezione senza investimenti serva a poco. Peccato che la Banca d’Italia abbia rivisto la crescita per quest’anno ad uno striminzito 0,6% invece che all’uno. Si faranno controlli affinché i poveri si comportino bene, perché potrebbero utilizzare la card per scopi immorali. A questo punto, entra in sala un navigator, è alto con capelli lunghi del colore del miele e lineamenti gentili, ha una corazza pesante e dei calzari d’oro, delle ali maestose. Silenzio in sala, sulla parete in fondo, al di là dei leggii, viene proiettato un film, è un remake di Matrix Reloaded, si intitola “Boom”. Ad un certo punto si vede l’autostrada digitale, fuori campo si sente la voce dell’Oracolo-Di Maio che ci preannuncia il miracolo economico. Doveva apparire Trinity sulla Ducati 996, invece, è comparsa una lambretta con i fanalini rotti. Luci.

mercoledì 1 aprile 2015

Un ricordo

La prima volta che ho sentito parlare di loro avevo sei anni. Ricordo che all’ultimo banco, in fondo all’aula, si sedeva Massimino. Aveva la carnagione scura, gli occhi vispi e occupava con naturalezza il posto riservato a chi non apparteneva alla borghesia cittadina. La maestra, infatti, consapevolmente aveva riprodotto le divisioni sociali che poi, da grandi, avremmo ritrovato nella vita. In prima fila, sedevano i figli di papà, poi, via via, noi che eravamo il resto dell’umanità. Quelli in ultima fila non esistevano. Eppure, c’era qualcosa in loro che mi attirava. Nel caso di Massimino, era la merenda: una pagnottella ripiena di Nutella. Il massimo della trasgressione. Noi, i convenzionali, ci portavamo un panino con il solito affettato. Se è vero che degli ultimi è il regno dei cieli, allora, tra i vantaggi del Paradiso ci deve essere pure la cioccolata alle nocciole. Questo era quello che pensavo guardando il mio compagno di scuola mangiare con gusto la sua merenda. Un giorno, ricordo che entrò in classe una signora dall’espressione molto seria, probabilmente la metà del suo stipendio era destinato all’acquisto di fondotinta Max Factor e rutilanti rossetti. Era alta e bionda. Aveva un camice bianco. Dopo aver parlato a voce bassa con la maestra, era uscita con la stessa espressione di superbia e indifferenza con cui aveva fatto il suo ingresso. Finalmente il mistero venne svelato. L’amazzone era il medico della scuola e ci doveva visitare tutti. Noi capivamo pochissimo di quello che stava succedendo. L’unico che sorrideva era Massimino. La maestra continuava a dire che era una specie di epidemia. “Quando a scuola viene certa gente, questo è quello che succede!” Furono convocati i genitori di tutti i bambini e a loro venne comunicata la tremenda verità:”pidocchi”. Era la prima volta in vita mia che sentivo quella parola. Se si fosse trattato di soldatini, avrei capito. Di quelli mi intendevo. I pidocchi, invece, non sapevo cosa fossero. “Ci gratta la testa perché abbiamo i pidocchi”, mi spiegò la mia compagna di banco. Ricordo che il pomeriggio stesso venni portato dal farmacista, un vecchio che sapeva molte cose. Mi guardò come se fossi stato un animale raro e dopo qualche secondo emise la sua sentenza:”Momsen”. Dopo aver fatto ritorno a casa, venni portato in bagno e la mia testa venne cosparsa di una polverina verde. I miei dissero che il giorno dopo sarei dovuto rimanere a casa, “per aspettare l’effetto”. “Domani sera bisogna lavargli i capelli con lo shampoo della farmacia.” Il giorno dopo, libero dal peso della scuola, giocai tutta la mattina con Bibì, il mio barboncino, e i soldatini. Nella mia mente di bambino, non riuscivo ad odiarli, i pidocchi. Erano stati loro a regalarmi quella breve vacanza. Una volta ritornato alla monotonia della scuola, trovai la maestra in preda allo sconforto più totale. Non riusciva a capire come mai fossero stati infettati anche i nobili. Le bestiacce non avevano risparmiato nemmeno loro, le teste coronate. Non esisteva più l’educazione! Fu allora che tutto mi fu chiaro. Il compagno che mangiava ogni giorno pane e cioccolata, sapeva… Sapeva che i pidocchi se ne fregano delle classi sociali, sono anarchici e vanno dove gli pare. Le bestione avrebbero impartito una lezione di uguaglianza forzata che difficilmente avremmo dimenticato. Per quanto mi riguarda, se esteriormente dovevo dimostrare tutto il mio ribrezzo verso quegli esseri sporchi, segretamente ho sempre conservato un senso di gratitudine verso di loro, per avermi donato un giorno di libertà. Per anni, questa storia è rimasta sepolta dentro di me. Poi, un giorno che mi trovavo dal mio barbiere, ho ascoltato il racconto di un fatto accaduto tanti anni fa, quando la miseria era per molti una compagna quotidiana (più o meno come oggi). C’era un uomo con la testa come un’anguria e con un solo capello. Su questa sfera liscia abitava un pidocchio che individuato dal barbiere correva come un forsennato, probabilmente perché non era d’accordo sul fatto di essere accoppato. Fu allora che mi venne in mente quell’episodio della mia infanzia. I pidocchi sono sempre stati emarginati rispetto ad altri animali. Pensiamo alle pulci e alla dignità cinematografica che hanno avuto. Pensiamo alla celebre esibizione delle pulci volanti del clown Calvero, in Luci della ribalta. Il domatore di pulci, Charlie Chaplin, rimarrà per sempre. Nessuno, però, riflette sul fatto che i pidocchi, per tanto tempo, hanno dimostrato ai bambini che tutti gli uomini sono uguali. E qualche volta, sono riusciti a dirlo servendosi del sapore dolce e intenso della crema alle nocciole. Gennaro Domestico

giovedì 15 maggio 2014

giovedì 8 maggio 2014

Contro i partiti del declino


 Quella sera del 2011, quando Mario Monti apparve in televisione dicendo che per molto tempo tutti avevamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, diventò chiaro a tanti italiani che esistevano due realtà. Una, rappresentata dalla vita di milioni di persone che, quotidianamente, provavano sulla propria pelle gli effetti della crisi; un’altra, quella di chi insegnava in prestigiose e costose e private università, e molto spesso, sedeva nei board delle grandi istituzioni finanziarie internazionali. Per sottolineare la gravità della situazione, come curatore fallimentare del Paese, era stato scelto un uomo che non ride quasi mai, con un piglio molto british. Bisognava fare sacrifici, diceva costui. Tutti dovevano fare sacrifici. Ed è proprio quando disse questa frase che la mia mente andò ad un aforisma che avevo letto da studente liceale: “ La legge, nella sua solenne equità, proibisce così al ricco come al povero di dormire sotto i ponti, di elemosinare nelle strade e di rubare pane.” Con il passare dei giorni, capii il perché. Quando la legge è uguale per tutti, inevitabilmente è ingiusta per i più deboli, perché non tiene conto che le condizioni dei ricchi e dei poveri sono diverse: il divieto di dormire sotto i ponti colpisce i senzatetto, non chi abita in quartieri esclusivi. Ce lo ha spiegato bene il vecchio Karl Marx commentando l’aforisma di Anatole France.
I tagli lineari operati dal governo Monti, la sua visione per cui tutti debbano soffrire, inevitabilmente fanno soffrire ancor di più chi già soffre e pochissimo chi non ha mai sofferto. Si chiama austerità. Il messaggio  che doveva passare era semplice: il problema era il debito pubblico, soldi che tutti avevano sperperato nel corso di decenni di finanza allegra. Adesso bisognava provvedere. Gli italiani sono sempre stati delle cicale spendaccione. Monti era nel giusto, Bruxelles era nel giusto, e quello che è più importante, Angela Merkel era ed è nel giusto: bisognava tirare la cinghia. Così, nell’anno del Signore 2012, si verifica la cosa più grave. Guidata dall’ex rettore della Bocconi, una classe politica tra le più scadenti del mondo occidentale, modifica l’articolo 81 della Costituzione e ratifica il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e la governance nell’Unione economica e monetaria, il famigerato Fiscal Compact. Due iniziative destinate a dare un colpo mortale al Welfare State e alla democrazia. In una totale e scandalosa assenza di dibattito, nell’aprile 2012, vengono approvate in seconda lettura le modifiche agli articoli 81, 97, 117 e 119. Viene inserito in Costituzione il pareggio di bilancio. Dire che “lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio”, significa castrare la possibilità per lo Stato di intervenire con la spesa pubblica per mettere l’economia sul sentiero della crescita, in lunghi periodi di crisi come quello attuale. Si annulla quell’attività che si chiama “deficit spending”: sostenere oggi l’economia che va male, per ottenere domani in termini di entrate fiscali le risorse impiegate, quando l’economia si riprenderà. Attraverso questo sistema, si sono garantiti i diritti fondamentali dei cittadini, come quello all’istruzione, alla salute. Nella cultura neoliberista, che permea i partiti che hanno sostenuto Monti, il Pd e il Pdl, lo Stato è la vera fonte di tutti i problemi e come tale deve essere limitato. Lo Stato produce spesa e la spesa è il male assoluto. Con la stessa inettitudine e indolenza nei confronti delle sofferenze che il Paese stava vivendo, la maggioranza parlamentare approvò nel luglio dello stesso 2012 il Fiscal Compact. In questo trattato, tre sono le questioni rilevanti: il divieto per uno stato membro di avere un rapporto deficit/Pil superiore al 3%; il debito pubblico ( l’incarnazione del Male!) non deve superare il 60% del Pil, in caso contrario bisogna intraprendere una serie di misure incisive per rientrare nel rapporto, tagliando la parte eccedente; …and last but not least, il pareggio di bilancio, che si considera raggiunto se il disavanzo strutturale non supera lo 0,5%.
Per quello che qui ci interessa, soffermiamoci sul rapporto debito/Pil. Che cosa accadrà nel nostro caso? Per i prossimi vent’anni, dovremo realizzare un taglio del 5% annuo del nostro debito, che, tradotto, significa tagli alla spesa pubblica per 45-50 miliardi annui. Con i migliori ringraziamenti a Berlusconi, Tremonti, Monti, Letta e all’uomo che tweetta, Matteo Renzi, quello che doveva andare dalla Merkel a farsi sentire ed è tornato con la coda tra le gambe. Tagliare la spesa pubblica, è questo il mantra dei governanti europei. Pier Carlo Padoan, attuale ministro dell’Economia, già consulente di D’Alema, lo ha detto chiaramente : qualunque riduzione della pressione fiscale dovrà essere compensata da tagli alla spesa. Come avverranno questi tagli? Rispondiamo con un esempio: in occasione della conferenza stampa di presentazione del Documento di Economia e Finanza, Renzi ha detto che non ci saranno nuove tasse, salvo dire subito dopo che ci saranno tagli ai trasferimenti a regioni, province ( ma non le aveva abolite?), e comuni, per 700 milioni di euro. Se ad una regione come la Calabria vengono meno dei soldi dallo Stato e il suo bilancio è assorbito per l’80% dalla sanità, chi pagherà il conto dei mancati trasferimenti? La risposta forse è semplice, i cittadini. E’ evidente che 700 milioni di euro non siano una cifra esorbitante, ma quello che preoccupa è la ratio di questo governo. Io, Renzi, faccio la parte di chi non alza le tasse e regalo un bonus di 80 € ad una platea di lavoratori dipendenti dai quali il 25 maggio mi aspetto di incassare un cospicuo dividendo elettorale. Contemporaneamente, riduco i trasferimenti agli enti locali, i quali dovranno tagliare i servizi essenziali, aumentare i tributi, aumentare l’addizionale Irpef.
Chi viene penalizzato con questo modo di fare? Le fasce sociali più deboli, quelle persone che dal 2008 stanno pagando il prezzo più alto a causa della crisi. Gli inoccupati che, in Calabria, devono pagare i ticket sanitari, i pensionati per i quali, 30 o 40 euro di addizionali comunali e regionali al mese, sono una trasfusione di sangue. E’ la cultura dei gruppi finanziari che hanno fatto grandi guadagni prima della crisi e stanno speculando adesso. Quelli che letteralmente si sono mangiati la Grecia, il paese dove i bambini svengono a scuola perché denutriti, cosa che, del resto, sta ormai accadendo anche in molte scuole pubbliche inglesi. Il paese governato dai conservatori di Cameron, il paese di Margaret Thatcher che per tagliare la spesa tolse la tazza di latte quotidiana agli studenti. La patria del Welfare State guida l’offensiva contro i più deboli, “gli assistiti”. L’importante non sono i bambini, ma preservare la rendita delle società finanziarie. L’importante è sostenere le perdite del sistema bancario con i soldi pubblici. Un sistema quest’ultimo, che invece di sostenere l’economia reale, ha bruciato miliardi di euro in derivati. Non bisogna andare lontano per avere qualche esempio. Prego consultare la voce Monte dei Paschi di Siena. Questa cosa si chiama socializzare le perdite, far pagare alla collettività i problemi dei privati, le banche.
In questo senso, Matteo Renzi è solo un imitatore di Tony Blair e neanche ben riuscito. Aveva promesso miliardi per l’edilizia scolastica e che fine hanno fatto questi soldi? Sono diventati qualche milione di euro, spiccioli. Forse, la verità è più banale: i personaggi scelti dalla burocrazia europea, organismo che nessuno ha votato, per interpretare il ruolo di presidente del Consiglio, hanno un solo mandato: smantellare l’odiato stato sociale, spalancare la prateria al neoliberismo. Ecco il significato dei tagli alla spesa pubblica. Alla metà degli anni ’80, la destra americana coniò un termine per questo: “to starve the beast”, affamare la bestia, ridimensionare drasticamente lo stato. Solo che, almeno in questo caso, i politici europei ci stanno riuscendo con un metodo più raffinato che si chiama Fiscal Compact e pareggio di bilancio. Impedire che lo stato intervenga per assicurare  i diritti delle fasce sociali più deboli con delle rigide regole contabili.
Ritornando alla questione della modifica dell’art.81 della nostra Costituzione operato dal Partito democratico e dal Popolo delle libertà, ho parlato di un colpo grave inferto alla democrazia. L’importanza della questione, infatti, avrebbe suggerito di sottoporre la legge a referendum popolare, proprio per far decidere il popolo italiano su un tema che coinvolge il suo futuro, visto che il pareggio di bilancio condiziona le decisioni del governo in maniera pesantissima. La possibilità del referendum è consentita dall’art.138. Che cosa fece, invece, quel parlamento screditato? Approvò la modifica con la maggioranza dei due terzi, per evitare la consultazione popolare. Tutto nel silenzio più totale di una stampa complice e, anzi, organica, al sistema dei partiti.
Di fronte ad una disoccupazione giovanile del 43% ed al fatto che ogni giorno 40 imprese chiudono i battenti, l’assillo di Matteo Renzi è inviare tweet propagandistici per le imminenti elezioni europee. La ripresa dei consumi è affidata all’effetto salvifico dei magici 80 euro, per i quali, è bene ricordarlo una volta di più, esiste la copertura solo per il 2014. Una ben magra prospettiva per un governo che doveva cambiare verso.

                                                                  Gennaro Domestico







domenica 28 luglio 2013

La luce di Francesco

Ho appena terminato di leggere Lumen Fidei, l'enciclica scritta da Ratzinger pensando al Papa che sarebbe venuto dopo di lui. Devo ammettere che mi ha sorpreso favorevolmente. L'affermazione di una società fondata sull'amore contrasta con quello che per anni ci hanno ripetuto i Chicago Boys e i loro epigoni nostrani sul valore dell'individualismo come motore del progresso. La fraternità di cui si parla, se da un lato è l'opposto dell'uguaglianza marxista, lo è ancor di più del liberismo. L'amore e il tempo sono concetti fondamentali di una riflessione che mira ad esaltare tutta l'eredità di Agostino. Guardando Papa Bergoglio camminare per le strade più povere di Rio de Janeiro, vengono in mente le parole dell'enciclica dell'incedere dell' uomo nel tempo, i cui passi sono illuminati dalla fede. Un'immagine potente e suggestiva in cui passato, presente e futuro si legano indissolubilmente da una promessa fondata sull'affidabilità. Il cammino nel tempo non è mera predicazione nel chiuso di una spazio. "Il tempo è sempre superiore alla spazio" (Lf 57). L'amore al posto di protocolli e cerimoniali. 

mercoledì 10 aprile 2013