giovedì 8 maggio 2014

Contro i partiti del declino


 Quella sera del 2011, quando Mario Monti apparve in televisione dicendo che per molto tempo tutti avevamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, diventò chiaro a tanti italiani che esistevano due realtà. Una, rappresentata dalla vita di milioni di persone che, quotidianamente, provavano sulla propria pelle gli effetti della crisi; un’altra, quella di chi insegnava in prestigiose e costose e private università, e molto spesso, sedeva nei board delle grandi istituzioni finanziarie internazionali. Per sottolineare la gravità della situazione, come curatore fallimentare del Paese, era stato scelto un uomo che non ride quasi mai, con un piglio molto british. Bisognava fare sacrifici, diceva costui. Tutti dovevano fare sacrifici. Ed è proprio quando disse questa frase che la mia mente andò ad un aforisma che avevo letto da studente liceale: “ La legge, nella sua solenne equità, proibisce così al ricco come al povero di dormire sotto i ponti, di elemosinare nelle strade e di rubare pane.” Con il passare dei giorni, capii il perché. Quando la legge è uguale per tutti, inevitabilmente è ingiusta per i più deboli, perché non tiene conto che le condizioni dei ricchi e dei poveri sono diverse: il divieto di dormire sotto i ponti colpisce i senzatetto, non chi abita in quartieri esclusivi. Ce lo ha spiegato bene il vecchio Karl Marx commentando l’aforisma di Anatole France.
I tagli lineari operati dal governo Monti, la sua visione per cui tutti debbano soffrire, inevitabilmente fanno soffrire ancor di più chi già soffre e pochissimo chi non ha mai sofferto. Si chiama austerità. Il messaggio  che doveva passare era semplice: il problema era il debito pubblico, soldi che tutti avevano sperperato nel corso di decenni di finanza allegra. Adesso bisognava provvedere. Gli italiani sono sempre stati delle cicale spendaccione. Monti era nel giusto, Bruxelles era nel giusto, e quello che è più importante, Angela Merkel era ed è nel giusto: bisognava tirare la cinghia. Così, nell’anno del Signore 2012, si verifica la cosa più grave. Guidata dall’ex rettore della Bocconi, una classe politica tra le più scadenti del mondo occidentale, modifica l’articolo 81 della Costituzione e ratifica il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e la governance nell’Unione economica e monetaria, il famigerato Fiscal Compact. Due iniziative destinate a dare un colpo mortale al Welfare State e alla democrazia. In una totale e scandalosa assenza di dibattito, nell’aprile 2012, vengono approvate in seconda lettura le modifiche agli articoli 81, 97, 117 e 119. Viene inserito in Costituzione il pareggio di bilancio. Dire che “lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio”, significa castrare la possibilità per lo Stato di intervenire con la spesa pubblica per mettere l’economia sul sentiero della crescita, in lunghi periodi di crisi come quello attuale. Si annulla quell’attività che si chiama “deficit spending”: sostenere oggi l’economia che va male, per ottenere domani in termini di entrate fiscali le risorse impiegate, quando l’economia si riprenderà. Attraverso questo sistema, si sono garantiti i diritti fondamentali dei cittadini, come quello all’istruzione, alla salute. Nella cultura neoliberista, che permea i partiti che hanno sostenuto Monti, il Pd e il Pdl, lo Stato è la vera fonte di tutti i problemi e come tale deve essere limitato. Lo Stato produce spesa e la spesa è il male assoluto. Con la stessa inettitudine e indolenza nei confronti delle sofferenze che il Paese stava vivendo, la maggioranza parlamentare approvò nel luglio dello stesso 2012 il Fiscal Compact. In questo trattato, tre sono le questioni rilevanti: il divieto per uno stato membro di avere un rapporto deficit/Pil superiore al 3%; il debito pubblico ( l’incarnazione del Male!) non deve superare il 60% del Pil, in caso contrario bisogna intraprendere una serie di misure incisive per rientrare nel rapporto, tagliando la parte eccedente; …and last but not least, il pareggio di bilancio, che si considera raggiunto se il disavanzo strutturale non supera lo 0,5%.
Per quello che qui ci interessa, soffermiamoci sul rapporto debito/Pil. Che cosa accadrà nel nostro caso? Per i prossimi vent’anni, dovremo realizzare un taglio del 5% annuo del nostro debito, che, tradotto, significa tagli alla spesa pubblica per 45-50 miliardi annui. Con i migliori ringraziamenti a Berlusconi, Tremonti, Monti, Letta e all’uomo che tweetta, Matteo Renzi, quello che doveva andare dalla Merkel a farsi sentire ed è tornato con la coda tra le gambe. Tagliare la spesa pubblica, è questo il mantra dei governanti europei. Pier Carlo Padoan, attuale ministro dell’Economia, già consulente di D’Alema, lo ha detto chiaramente : qualunque riduzione della pressione fiscale dovrà essere compensata da tagli alla spesa. Come avverranno questi tagli? Rispondiamo con un esempio: in occasione della conferenza stampa di presentazione del Documento di Economia e Finanza, Renzi ha detto che non ci saranno nuove tasse, salvo dire subito dopo che ci saranno tagli ai trasferimenti a regioni, province ( ma non le aveva abolite?), e comuni, per 700 milioni di euro. Se ad una regione come la Calabria vengono meno dei soldi dallo Stato e il suo bilancio è assorbito per l’80% dalla sanità, chi pagherà il conto dei mancati trasferimenti? La risposta forse è semplice, i cittadini. E’ evidente che 700 milioni di euro non siano una cifra esorbitante, ma quello che preoccupa è la ratio di questo governo. Io, Renzi, faccio la parte di chi non alza le tasse e regalo un bonus di 80 € ad una platea di lavoratori dipendenti dai quali il 25 maggio mi aspetto di incassare un cospicuo dividendo elettorale. Contemporaneamente, riduco i trasferimenti agli enti locali, i quali dovranno tagliare i servizi essenziali, aumentare i tributi, aumentare l’addizionale Irpef.
Chi viene penalizzato con questo modo di fare? Le fasce sociali più deboli, quelle persone che dal 2008 stanno pagando il prezzo più alto a causa della crisi. Gli inoccupati che, in Calabria, devono pagare i ticket sanitari, i pensionati per i quali, 30 o 40 euro di addizionali comunali e regionali al mese, sono una trasfusione di sangue. E’ la cultura dei gruppi finanziari che hanno fatto grandi guadagni prima della crisi e stanno speculando adesso. Quelli che letteralmente si sono mangiati la Grecia, il paese dove i bambini svengono a scuola perché denutriti, cosa che, del resto, sta ormai accadendo anche in molte scuole pubbliche inglesi. Il paese governato dai conservatori di Cameron, il paese di Margaret Thatcher che per tagliare la spesa tolse la tazza di latte quotidiana agli studenti. La patria del Welfare State guida l’offensiva contro i più deboli, “gli assistiti”. L’importante non sono i bambini, ma preservare la rendita delle società finanziarie. L’importante è sostenere le perdite del sistema bancario con i soldi pubblici. Un sistema quest’ultimo, che invece di sostenere l’economia reale, ha bruciato miliardi di euro in derivati. Non bisogna andare lontano per avere qualche esempio. Prego consultare la voce Monte dei Paschi di Siena. Questa cosa si chiama socializzare le perdite, far pagare alla collettività i problemi dei privati, le banche.
In questo senso, Matteo Renzi è solo un imitatore di Tony Blair e neanche ben riuscito. Aveva promesso miliardi per l’edilizia scolastica e che fine hanno fatto questi soldi? Sono diventati qualche milione di euro, spiccioli. Forse, la verità è più banale: i personaggi scelti dalla burocrazia europea, organismo che nessuno ha votato, per interpretare il ruolo di presidente del Consiglio, hanno un solo mandato: smantellare l’odiato stato sociale, spalancare la prateria al neoliberismo. Ecco il significato dei tagli alla spesa pubblica. Alla metà degli anni ’80, la destra americana coniò un termine per questo: “to starve the beast”, affamare la bestia, ridimensionare drasticamente lo stato. Solo che, almeno in questo caso, i politici europei ci stanno riuscendo con un metodo più raffinato che si chiama Fiscal Compact e pareggio di bilancio. Impedire che lo stato intervenga per assicurare  i diritti delle fasce sociali più deboli con delle rigide regole contabili.
Ritornando alla questione della modifica dell’art.81 della nostra Costituzione operato dal Partito democratico e dal Popolo delle libertà, ho parlato di un colpo grave inferto alla democrazia. L’importanza della questione, infatti, avrebbe suggerito di sottoporre la legge a referendum popolare, proprio per far decidere il popolo italiano su un tema che coinvolge il suo futuro, visto che il pareggio di bilancio condiziona le decisioni del governo in maniera pesantissima. La possibilità del referendum è consentita dall’art.138. Che cosa fece, invece, quel parlamento screditato? Approvò la modifica con la maggioranza dei due terzi, per evitare la consultazione popolare. Tutto nel silenzio più totale di una stampa complice e, anzi, organica, al sistema dei partiti.
Di fronte ad una disoccupazione giovanile del 43% ed al fatto che ogni giorno 40 imprese chiudono i battenti, l’assillo di Matteo Renzi è inviare tweet propagandistici per le imminenti elezioni europee. La ripresa dei consumi è affidata all’effetto salvifico dei magici 80 euro, per i quali, è bene ricordarlo una volta di più, esiste la copertura solo per il 2014. Una ben magra prospettiva per un governo che doveva cambiare verso.

                                                                  Gennaro Domestico







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