lunedì 14 ottobre 2019

La Storia non insegna niente.

La crisi siriana dimostra ancora una volta che l'Europa, come entità politica non esiste. La ridicola presa di posizione dei ministri degli esteri della UE non significa nulla. Vietare la vendita di armi alla Turchia è una vera presa in giro, perché i turchi hanno già le armi per perpetuare il loro massacro contro i curdi. Oggi, quello che fa più indignare è proprio l'atteggiamento dei governi europei, impauriti dalle minacce di Erdogan di riversare nel continente tre milioni e mezzo di profughi. Sono tutti terrorizzati dall'idea di perdere consenso all'interno dei propri paesi, dopo che per anni politici di quattro soldi hanno seminato odio e razzismo nei confronti degli immigrati. Che senso ha fare un governo senza la Lega se poi si condivide la sua visione di fondo? Un vero statista prende decisioni che possono risultare impopolari, ma le prende lo stesso perché ha il coraggio di farlo. Bisognava inviare un contingente militare al confine turco-siriano, nello spazio lasciato dagli Usa. Forse Erdogan non avrebbe osato bombardare con il pericolo di colpire le truppe di un paese alleato nella Nato. E intanto che Di Maio firma il suo decreto per vietare la vendita di armi alla Turchia, i curdi e i siriani muoiono. La verità è che del dramma curdo non importa a nessun governo. I curdi non rappresentano uno stato, non hanno petrolio come il Kuwait. Da venticinque anni a questa parte, hanno fatto solo una cosa: hanno difeso l’esistenza stessa della Civiltà contro il terrorismo. La situazioni odierna ricorda per certi aspetti la Conferenza di Monaco del 1938, quando Adolf Hitler smembrò la Cecoslovacchia per annettere la regione abitata dai sudeti. Il Führer lo fece di fronte ai pavidi ministri di Francia e Gran Bretagna, che non fecero nulla per impedirglielo, anzi accondiscesero nella speranza di placare la sete di dominio del Terzo Reich. Oggi l’Europa balbetta, si nasconde dietro vuote formule diplomatiche. Donald Trump scrive su Twitter dei comunicati che si contraddicono nel corpo stesso del testo in un evidente sintomo di schizofrenia politica. Tutto questo, mentre non troppo lontano da noi, un popolo sta combattendo e morendo con orgoglio e onore, quell’onore che il Mondo civile sembra aver perso.

venerdì 24 maggio 2019

Il Paese prima di tutto.

Le foto in bianco e nero presentano una forte suggestione, ma hanno anche un grave difetto. Non si capisce mai con certezza se ci sia il sole o il cielo sia plumbeo. Com’era il tempo il 9 maggio 1978 a Roma? Di quel giorno, molti di noi conservano un’immagine triste, grottesca. La posa innaturale del presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, con la testa reclinata da un lato, è un corpo da cui la vita se n’è andata. Prima c’erano state le lettere dal carcere brigatista, con la radicale e drammatica presa di distanza del professore rispetto al partito di cui era stato così a lungo dirigente. Il 7 giugno 1984, invece, faceva caldo. Padova era piena di comunisti, era la conclusione della campagna elettorale per le Europee. Enrico Berlinguer, stremato, cercava di concludere il suo comizio, mentre la folla gli gridava “basta!”. I comunisti avevano capito che il capo stava male. Il segretario del Pci morirà qualche giorno più tardi.
Dopo la morte di Moro, è successo un fatto di cui esiste un’esigua traccia, affidata alla memoria di un uomo ormai vecchio, Massimo Magliaro, che di mestiere faceva il capo ufficio stampa del MSI. Si tratta degli incontri riservati, quattro, forse sei, che Enrico Berlinguer e Giorgio Almirante ebbero tra il 1978 e il 1979. Di queste cose parla un bel libro, uscito di recente, scritto da Antonio Padellaro, “Il gesto di Almirante e Berlinguer”, per PaperFIRST. Sullo sfondo, e neanche troppo sullo sfondo, c’è il terrorismo, quello rosso e quello nero, e ci sono due uomini, due nemici. Da una parte c’è la lotta di liberazione e dall’altra c’è la Repubblica di Salò. Due persone più distanti non sarebbe stato possibile trovare. Eppure si incontrarono, si parlarono, probabilmente mutarono anche l’idea che l’uno aveva dell’altro. Forse impararono a stimarsi. Gli incontri avvenivano di venerdì pomeriggio, in una sala riservata di Montecitorio. Alla fine della settimana, infatti, la Camera era quasi deserta, i deputati ritornavano a casa e nei corridoi c’era poca gente. Ad accompagnare Almirante e Berlinguer vi erano soltanto due persone, Massimo Magliaro e Antonio Tatò. Non sappiamo l’argomento dei colloqui, perché A. e B., come li chiama Padellaro, ad un certo punto si appartavano e rimanevano soli. Forse si scambiavano notizie utili per fronteggiare l’ondata di violenza che da destra e da sinistra stava affogando l’Italia. Più che le parole, però, contano i gesti: l’incontro di due culture distanti, la volontà di porre gli interessi del Paese prima di ogni altra cosa. L’aspirazione comune che l’Italia meritasse di più.

Quando Enrico Berlinguer morì, la camera ardente venne allestita a Roma alle Botteghe Oscure. Tantissime persone si recarono a dare l’ultimo saluto a quello che, senza dubbio, rimane l’ultimo leader che il Pci abbia avuto. Tra le persone normali in fila, ad un certo punto ne comparve una che nessuno avrebbe mai immaginato potesse trovarsi lì. Un tipo calvo, con gli occhi azzurri. Tra lo stupore generale, Giorgio Almirante sostò davanti alla bara e si fece il segno della croce. L’erede di Salò rendeva l’ultimo omaggio al comunista, per niente amato dai comunisti sovietici. Sono passati trentacinque anni da allora, oggi i gesti hanno perso di importanza a favore della chiacchiera. L’unica costante rimane la corruzione dilagante, quel male contro cui una classe dirigente degna di questo nome aveva cercato di combattere. Quella battaglia, purtroppo, Berlinguer l’ha persa. Quel senso del bene comune, malgrado tutto e tutti, di cui Almirante e Berlinguer diedero testimonianza, è compromesso dal chiacchiericcio degli incapaci. Ciononostante sarebbe necessario mantenerne la memoria. E qui si inserisce la felice proposta di Padellaro, uno di sinistra, subito accolta da Pietrangelo Buttafuoco, uno di destra. Perché non intitolare una piazza a Giorgio Almirante ed Enrico Berlinguer? Sarebbe un fatto importante per ricordare a tutti, ed in special modo alle nuove generazioni (come si suol dire), che l’Italia ha avuto dei politici che, pur con visioni diverse, l’hanno amata più delle loro poltrone.

mercoledì 27 febbraio 2019

I quattro mori.

Sulle elezioni regionali sarde, in questi giorni, se ne sono sentite di tutti i colori. Sparate esilaranti ne abbiamo ascoltate da Di Maio:”Prima non eravamo nel Consiglio regionale, adesso ci siamo”. Battute ancora più colorite da esponendi del Pd:”Queste elezioni sono la prova che il bipolarismo non è morto, anzi!”. A sentire questa gente, hanno vinto tutti…Chi ha vinto e chi ha perso veramente? Ha perso il governo, questo è il dato lampante. I 5 stelle hanno subito un vero tracollo perdendo trecentomila voti in un anno. In televisione, i soliti esperti di flussi elettorali si sono addentrati in spericolate analisi per cui i voti dei grillini delusi sarebbero andati alla Lega e al Pd. I dati dicono altro, dicono che meno del venti per cento ha votato per il centrodestra e poco più del quindici ha votato per il centrosinistra. Il resto dov’è andato? Semplicemente non è andato a votare. Si è rifugiato di nuovo nell’astensionismo. Come dargli torto? In questi mesi chi aveva dato fiducia al Movimento 5 Stelle, ha dovuto assistere a continui cambi di linea, ripensamenti indecenti come sul Tap in Puglia e la promessa di aumento delle pensioni ai disabili con tanto di video su Instagram. Per non parlare del caso della nave Diciotti, dove si è assistito alla totale sconfessione di uno dei pilastri del Movimento per cui nessuno è al di sopra della legge, nemmeno un ministro. La pessima costruzione del Reddito di Cittadinanza in cui si confonde la lotta alla povertà con una misura attiva per il lavoro, ha fatto il resto. Gli stessi criteri per ottenerlo non fanno altro che escludere tante persone che si trovano effettivamente in una condizione di sofferenza. In secondo luogo, ha perso il centrosinistra che ha dovuto cedere la guida della regione. Il Pd, benchè sia risultato ancora primo partito, ha dimezzato la sua percentuale rispetto alle scorse regionali. Il centrosinistra esiste come artificio elettorale, un cartello senza un progetto politico nel migliore dei casi, nel peggiore un reticolo clientelare che cerca di sopravvivere alla temperie. La sinistra ormai sembra svanita dopo vent’anni di subalternità al neoliberismo. I diritti sociali e la questione meridionale sono scomparsi dall’agenda. Uno spazio veramente desolante quasi come un paesaggio urbano di Michelangelo Antonioni o un quadro di Edward Hopper. Ha vinto il centrodestra che non è solo la Lega come si vorrebbe far credere. Le elezioni sarde mostrano questo fatto in maniera inequivocabile. In Italia c’è un blocco sociale molto vasto, che in certi periodi della nostra storia diventa senz’altro maggioritario, che si richiama ai valori della destra, non solo e non tanto a quella sociale, ma quella fatta dalla paura del diverso, dal bisogno di sicurezza. La destra non è solo quella dei piccoli e medi imprenditori del nord, ma anche quella di chi è stato falcidiato dalla crisi di questi anni ed è stato abbandonato dalla sinistra. Chi abita nelle periferie di questo nostro paese si sente ed è dimenticato dalla politica, è povero e ha paura dei nigeriani che spacciano l’eroina sotto casa sua. Si tratta di un raggruppamento largo che non è solo la Lega di Salvini, si tratta di un diffuso e comune sentire. In questo quadro, la Lega non brilla nel risultato elettorale perché sconta l’impossibilità di mantenere le promesse. Benche Salvini abbia cercato di mostrarsi vicino ai pastori sardi, la sua operazione elettorale non ha portato grandissimi frutti. Se non hai un bagaglio culturale di un certo tipo non puoi capire veramente i problemi del Meridione, tale è la Sardegna. Se qualcosa di significativo emerge da queste elezioni sarde è la distanza tra un ceto politico impreparato e la realtà. Quando erano in corso le trattative per il governo nazionale, fonti giornalistiche riferiscono che Di Maio e Salvini convocarono il prof.Giulio Sapelli per sondare la sua disponibilità a ricoprire la carica di presidente del Consiglio. Emblematica la domanda che Di Maio gli avrebbe fatto:”qual è la sua visione dell’economia?”. Sarebbe bastato leggere la sua celebre Storia dell’economia italiana dal dopoguerra ad oggi, per sapere la visione di Sapelli, un cultore della terza via di Tony Blair. Il problema che oggi affligge il Paese è l’esistenza di una classe di governanti che non studia, non legge e si fa quasi vanto della sua poca preparazione. In una fase come quella che stiamo vivendo, noi italiani avremmo avuto bisogno di una classe politica strutturata sul piano culturale con gli strumenti giusti per leggere la società. Qualche settimana fa, Paolo Savona si è dimesso da ministro, non certo perché muoia dalla voglia di fare il presidente della Consob. Nella primavera scorsa, il professore sardo ha pubblicato la sua autobiografia Come un incubo e come un sogno, nella quale ricostrusce, tra le altre cose, il periodo del boom economico. Savona dimostra come siano stati fondamentali due elementi che hanno determinato quel cosiddetto miracolo: l’edilizia e le esportazioni. Quando era ancora ministro di questo governo, il professore aveva presentato un piano da cinquanta miliardi di investimenti pubblici. Questo piano è stato completamente ignorato. Il ministero delle Infrastrutture è retto da una persona, Danilo Toninelli, che non si capisce se sia un caso lampante di incapacità politica, o, più semplicemente, un caso clinico.

sabato 19 gennaio 2019

È tutta una grande Storia... Il 17 gennaio dell’A.D. 2019, passerà alla Storia (un termine molto amato dai 5Stelle) per la nascita del nuovo Welfare State. Il ministro dai denti più bianchi del mondo e più abbronzato del mondo ha dichiarato con tanto di slide che ormai è fatta, ci siamo: è sorto un nuovo Stato sociale. L’ossatura della nuova creatura è il Reddito di Cittadinanza. A un milione e settecentomila famiglie verrà data una card e sarà questa il mezzo per tirare via dalla palude della povertà i disperati italiani insieme a qualche centinaio di migliaia di stranieri residenti in Italia da più di dieci anni. È un fatto storico, è un momento storico, è proprio una cosa storica! Peccato che qualche giorno fa, il ministro Di Maio abbia pubblicato su Instagram una foto con l’elenco di tutte le cose fatte e tra queste ci fosse anche l’aumento delle pensioni ai disabili. Fatto anch’esso che attiene alla Storia: nel decreto appena licenziato non v’è traccia dei disabili. Il ministro per il quale “nessuno deve rimanere indietro”, si è dimenticato proprio di quelli che, di solito, sono sempre indietro. Il nostro, nello show a Palazzo Chigi, non ha mancato di sottolineare che le pensioni di cittadinanza riguarderanno anche duecentocinquantamila nuclei con disabili. Che a veder bene non c’entra niente con l’affermazione per cui abbiamo aumentato le pensioni ai disabili. Sarà una manovra espansiva, signore e signori, la povertà verrà abolita, perciò tutti sul balcone a festeggiare, mentre una signora in prima fila, vicino al palcoscenico, ride tanto che il rimmel si impasta con le lacrime. Silenzio in sala, per favore, c’è il presidente Conte:” Chi parla prima Matteo o Luigi?”. Parla Luigi per dire una verità che è già storia: chi non spenderà i soldi sulla card entro il mese, perderà questi soldi, perché questa è una misura economica. Non è che si regalano soldi senza un fine, bisogna “iniettarli” nel mercato. Peccato che l’iniezione senza investimenti serva a poco. Peccato che la Banca d’Italia abbia rivisto la crescita per quest’anno ad uno striminzito 0,6% invece che all’uno. Si faranno controlli affinché i poveri si comportino bene, perché potrebbero utilizzare la card per scopi immorali. A questo punto, entra in sala un navigator, è alto con capelli lunghi del colore del miele e lineamenti gentili, ha una corazza pesante e dei calzari d’oro, delle ali maestose. Silenzio in sala, sulla parete in fondo, al di là dei leggii, viene proiettato un film, è un remake di Matrix Reloaded, si intitola “Boom”. Ad un certo punto si vede l’autostrada digitale, fuori campo si sente la voce dell’Oracolo-Di Maio che ci preannuncia il miracolo economico. Doveva apparire Trinity sulla Ducati 996, invece, è comparsa una lambretta con i fanalini rotti. Luci.